Pensare l’impensabile, pensare la pace

2022-03-23
Flavio Felice   “Pensare l’impensabile” in tempi di guerra significa pensare la pace. Se solo poche settimane fa, l’impensabile era la guerra, oggi, dopo tre settimane di guerra, facciamo tutti difficoltà ad immaginare un futuro di pace, eppure non possiamo desistere dal farlo. A tal proposito, vorrei proporre la riflessione di Luigi Sturzo, uno tra i più importanti scienziati sociali del Novecento, la cui grandezza risiede nella sua straordinaria capacità di vedere i contorni di un mondo forse allora solo appena immaginabile. In La comunità internazionale e il diritto di guerra del 1928, una delle opere più complesse dell’esule fondatore del Partito Popolare e che, riletta oggi, tanto avrebbe ancora da dire, Sturzo non teorizza un federalismo del big state, un’autorità politica a competenza universale che avrebbe dovuto prendere il posto degli Stati nazionali; un Leviatano globale che assorbirebbe il potere dei tanti Leviatani nazionali. D’altro canto, Sturzo non sembra neppure accontentarsi di una comunità internazionale che sia la risultante di un’associazione di stati sovrani: un patto di collaborazione tra Stati più forti ed altri più deboli, dove i primi attraggono i secondi e questi ultimi si sottomettono all’idea di essere satelliti di superpotenze che esercitano un potere egemonico, all’interno di confinate aree di influenza: i blocchi che hanno contraddistinto la geopolitica dal secondo dopoguerra fino al 1989-91. In entrambi i casi, tanto che si tratti di un fantomatico, improbabile e pericoloso governo mondiale a competenza universale, quanto che si tenda verso istituzioni internazionali che mantengono inalterati i rapporti di forza tra Stati sovrani, Sturzo intravede nella nozione si “sovranità” l’elemento critico, il problema che andrebbe superato per consentire all’ordine internazionale di trovare una via certa che consenta dipensare la pace, non come una parentesi tra una conferenza di pace e una dichiarazione di guerra –tecnicamente saremmo di fronte ad una tregua –, bensì come l’assetto istituzionale e il grado storico di consapevolezza umana che giudica il ricorso alla guerra né giusto né ingiusto, ma privo di legittimità e di coerenza storica. Dunque, un assetto istituzionale, figlio di una elaborazione culturale maturata nel corso della storia, che sgombri il campo dall’equivoca nozione e di guerra giusta e produca le condizioni affinché qualsiasi ricorso alla guerra sia giudicato un anacronismo, un dispositivo politico sprovvisto del diritto di cittadinanza nell’era contemporanea, residuo del passato, privo ormai di qualsiasi legittimità politica, economica e culturale, al pari della schiavitù e di certi istituti feudali. Per raggiungere un simile obiettivo, irriducibile alla mera ingegneria istituzionale, l’esule popolare propone di riconsiderare la spina dorsale che tiene in piedi loStato, la sua stessa ragion d’essere: la nozione disovranità: assoluta, autonoma, autodeterminata, non derivata, indivisibile, superiorem non recognoscens. In nome di tale revisione concettuale, Sturzo registra una nuova tendenza che, invece di far perno sull’autonomia degli Stati, opera sul principio di interdipendenza; è il principio che “corregge” e “limita” il perno che fonda lo Stato. Per interdipendenza Sturzo non intende una mera coordinazione tra Stati, una tipologia di relazione internazionale che compenserebbe gli inevitabili rapporti di subordinazione. Ecco come Sturzo sintetizza il processo per mezzo del quale la nozione di sovranitàavrebbe iniziato a subire un’autentica mutazione genetica, al punto che è lecito interrogarsi su quanto sia corretto continuare a chiamarla tale: «I bisogni più sentiti nel corso del secolo XIX sono stati quelli economici e sociali che venivano a porsi sopra il vasto terreno delle comunicazioni e degli interessi generali; onde la necessità, sentita dagli stati, di vincolarsi con trattati, cercare di stabilire norme generali, creare unioni od organi, aventi determinate funzioni tecniche. Sorsero così l’Unione postale universale (1874-78), l’unione telegrafica internazionale (1865), l’Unione internazionale delle amministrazioni ferroviarie (1890, 1908, 1924), l’ufficio internazionale per la salute pubblica (1907), le varie convenzioni per i porti marittimi (1923), per le automobili (1909), per il traffico aereo (1919)». I trattati citati da Sturzo delineano un metodo di disarticolazione funzionale della nozione di sovranità e sembrano anticipare il metodo della “cooperazione strutturata”, con la quale, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, i padri fondatori diedero inizio al processo di unificazione europea. La disarticolazione prevede l’individuazione di una serie di funzioni che non fanno più capo alla sovranità statuale, bensì ad autorità che rispondono a istituzioni comunitarie. La particolarità di tale approccio, successivamente adottato da Jean Monnet e resa pubblica nella Dichiarazione Schumandel 9 maggio del 1950, risiede nella decisione dei singoli Stati di trasferire funzioni di sovranità non ad uno Stato consolidato, bensì a favore di un processo, evidenziando, in tal modo, un “paradigma” del “processo”, inteso come “autorità in via di formazione”. Ecco, dunque, che Sturzo, nel descrivere una sorta di “cooperazione strutturata” ante litteram, immagina l’ordine internazionale come qualcosa di molto simile ad una “global polity”, riconoscendo, di fatto, una serie di soggetti, non riconducibili allo stato, ma che con esso si relazionano e competono alla pari. Sturzo usa l’analogia del pluralismo all’interno dello Stato che, inevitabilmente, smette di svolgere la funzione classica di stabilizzatore e monopolista del potere: «Nonostante ciò, esistono anche oggi, come sempre, altri poteri o potenziali o effettivi, altri diritti e altra forza sia nell’interno che all’esterno di ogni stato. Il che sviluppa quel salutare dualismo di forze che desta energie e che, pur in mezzo a lotte e ad attriti, contribuisce all’incivilimento. Le minoranze etniche o politiche, lastampa, le chiese, i corpi municipali e autonomi, le organizzazioni operaie internazionali, i grandi trustsindustriali e commerciali, i movimenti internazionali, e così via, sono forze operanti in terreno proprio ma si esprimono su piano e con efficacia politica». Sturzo, ben prima di Wilhelm Röpke nel volumeL’ordine internazionale, del 1946, di Lionel Robbins ne L’anarchia internazionale e l’economia liberale, del 1937, e di Friedrich A. v. Hayek ne Le condizioni economiche del federalismo tra Stati, del 1939, è consapevole che l’unico modo per mettere fuori legge la guerra è lavorare ad un assetto istituzionale domestico ispirato ai principi liberali e popolari, dove nessuna forma sociale possa avanzare la pretesa di essere postagerarchicamente al di sopra delle altre. È questo il tratto caratteristico di quel principio di plurarchia in cui i nuclei sociali non sono meri corpi intermedi, cinghia di trasmissione tra l’individuo e la politica, ma “enti concorrenti” che contribuiscono al bene comune, adottando il “metodo di libertà”: la discussione critica su questioni di interesse comune. Nessuna pace, che non sia l’ennesima tregua, sarà mai possibili fino a quando la guerra non sarà messa fuori legge da un ordine sovranazionale, espressione e proiezione di un ordine interno plurarchico, democratico e liberale.